E’ l’inflazione energetica la principale responsabile dello stato di crisi che l’economia sta vivendo da oltre 3 anni. E’ quanto emerso da una ricerca su 500 aziende agroalimentari condotta da The European House – Ambrosetti. Per sette aziende italiane su dieci (69,2%) del settore Food&Beverage il problema è appunto il caro bolletta, seguito dagli effetti della crisi inflattiva delle materie prime (49,9%). In questo elenco si trovano poi gli strascichi della pandemia (23,0%) e, in linea con la crescita dei prezzi sulle materie prime, la difficoltà di approvvigionamento degli input produttivi (22,2%). All’ultimo posto c’è, invece, l’impatto dei danni legati alla siccità (13,5% delle imprese) che trova spiegazione nella storica dipendenza da materie prime estere delle aziende italiane.
Tutti questi elementi colpiscono anche le aziende del freddo, in particolare quello del caro energia, davvero molto impattante in un comparto altamente energivoro in tutte le fasi della filiera, dalla produzione, fino al trasporto e alla distribuzione.
Nonostante questi impatti, però, il sistema tiene: 1 impresa su 3 ha dichiarato di aver mantenuto il proprio piano strategico in questo periodo di crisi e, nonostante una pressione crescente sui costi operativi, quasi quattro imprese su dieci (39,4%) affermano di aver aumentato i propri prezzi al consumo meno di quanto sia aumentata l’inflazione. L’11,6% delle aziende è stato persino in grado di non aumentare il prezzo.
“E’ la dimostrazione – afferma Valerio De Molli, AD di TEH–Ambrosetti – del ruolo sociale delle imprese in questo contesto di difficoltà anche del potere di acquisto dei cittadini. Da solo, tuttavia, l’assorbimento di parte del peso dell’inflazione da parte degli operatori della filiera non è comunque sufficiente: questo contributo si inserisce infatti in un quadro che vede i consumi alimentari fermi da oltre un decennio e con una flessione del 3,4% nell’ultimo anno dovuta al momento di crisi, ma non solo. L’Italia è il Paese in cui il salario medio annuale è cresciuto di meno negli ultimi 30 anni tra Usa, Paesi Bassi, Germania, UK, Francia e Spagna, e dal 2021 al 2022 i salari medi reali si sono ulteriormente ridotti del 3,1%, contribuendo così a una sostanziale immobilità del potere d’acquisto”. Come emerso dal Rapporto, l’intera filiera agroalimentare italiana sostiene circa 30 macro-settori, contribuendo alla realizzazione del 16,4% del PIL nazionale. Con 282 miliardi di euro di valore aggiunto, di cui 64,1 diretti, il contributo dell’agroalimentare al PIL italiano è pari a 2,5 volte il settore automotive di Francia e Spagna messe insieme. Nel 2022, la bilancia commerciale della filiera agroalimentare italiana è tornata, tuttavia, negativa con un saldo di -2 miliardi di euro, dopo i primi 3 anni di solidità dal 2019 al 2021. L’esposizione internazionale della filiera agroalimentare è guidata da un deficit agricolo in continuo peggioramento, che ammonta a -13,2 miliardi di euro nel 2022. Infatti, a causa della dipendenza agricola dall’estero, il Paese ha perso circa 100 miliardi di euro di PIL nel periodo 2010-2022. “Anche il 2023 – conclude De Molli – potrà essere un anno complesso, e la recente alluvione in Emilia-Romagna ha aggravato la situazione ponendo sempre di più l’accento sugli impatti devastanti del cambiamento climatico”.